A metà degli anni 80, il panorama del comic book americano era caratterizzato da una situazione assolutamente consolidata, per non dire stagnante. Tre “protagonisti” si muovevano sul mercato, ognuno con un proprio ruolo preciso e definito e – in apparenza – destinato a non subire modificazioni significative. A un estremo si aveva la Marvel, la casa editrice di fumetti più potente del mondo, che sfornava mensilmente tonnellate di albi di supereroi che le garantivano il primato delle vendite in entrambi i canali distributivi dei comic books: quello tradizionale dei newss-tand (che dovrebbe essere – ma non è – l’equivalente delle nostre edicole) frequentato soprattutto dai lettori più giovani, ovvero dai loro genitori disposti a portare a casa, magari occasionalmente, qualche fumetto, e quello dei “negozi specializzati”, ormai diffusissimi in tutti gli Stati Uniti (che hanno rappresentato la salvezza dell’intera industria del comic book), dove gli appassionati e i collezionisti comprano regolarmente i loro albi. All’estremo opposto si trovano i cosiddetti “indipendenti”, piccole case editrici come First, Eclipse, Comico, Blackthorne, Dark Horse, Reivegade, Kitchen Sink, Gladstone e decine di altre, che lavorando esclusivamente attraverso reti di negozi specializzati cercavano (e non sempre trovavano o riuscivano a conservare) il loro piccolo spazio per proporre personaggi spesso diversi dal tradizionale supereroe, spesso nettamente migliori sia nella sostanza che nella forma, ma comunque condannati a restare circoscritti in un ambito limitato anche a causa di prezzi di copertina doppi o più che doppi rispetto al prodotto Marvel e DC. La stragrande maggioranza della produzione indipendente è tuttora inedita in Italia e questo è un grosso peccato, perché in mezzo a tante cose tutto sommato inutili si nascondono autentiche perle finora ignorate dalla nostra editoria, e che rischiano di essere negate per sempre agli appassionati di casa nostra… Tra i due estremi appena accennati si collocava la DC (Detective Comics, dalla testata che da sempre aveva ospitato le avventure di Batman), nota anche come National. Un tempo indiscussa regina del mondo dei fumetti americani, la DC che, non va dimenticato, aveva inventato nell’immediato anteguerra il genere “supereroi” con personaggi del calibro di Superman, Batman e Flash (per non citare che i tre che anche in Italia hanno avuto un larghissimo successo di pubblico) e che per decenni aveva guardato dall’alto (delle vendite) in basso tutte le sue concorrenti, ormai da molti anni si dibatteva in una crisi che pareva senza fondo e senza sbocco. Una crisi chiaramente determinata da mancanza di idee nuove, di creatività. Una crisi originata dall’errore di pensare che la infinita reiterazione di una formula di successo potesse infinitamente garantire vendite e profitti. Una crisi esplosa verso la metà degli anni Settanta, quando qualcuno si era accorto probabilmente con stupore, che la “piccola” Marvel dei “supereroi con super problemi” aveva effettuato il sorpasso anche nelle vendite, dopo aver effettuato quello nell’apprezzamento dei critici e degli appassionati. Una crisi, infine, fatta pagare per intero al solo Carmine Infantino, a quel tempo Grande Capo della DC dopo che per anni ne era stato uno dei migliori disegnatori (suoi un Flash e un Batman fra i migliori, suo quell’Adam Strange, non molto conosciuto in Italia, ma per il quale Infantino sarà sempre ricordato nella storia del comic book americano). Ma sostituire un Grande Capo con un altro – anzi un’altra, visto che per rilanciare la DC la scelta cadde su una donna, Jeneue Khan – non è, di per sé, garanzia di successo, o, quanto meno, di inversione di trend. E infatti la crisi continuò per molti anni, con la Marvel che si staccava sempre più sia come vendite che come gradimento, e con gli indipendenti che, a loro volta, sottraevano dollari e prestigio al vecchio gigante stanco. Ma, a ulteriore conferma, ove fosse necessario, che la soluzione a crisi di questo genere può venire solo dalla creatività di veri artisti, nella seconda metà degli anni Ottanta, e sempre sotto la guida di Jenette Khan e di Dick Giordano (altro grande disegnatore della DC passato dal cavalletto alla scrivania), si è assistito a una inversione di tendenza che, in termini di qualità del prodotto offerto, ha permesso alla DC di riprendere il sopravvento sulla Marvel e che, in termini di vendite, ha riportato i due giganti a competere su un piano di quasi assoluta parità. Quello che è successo è che, molto semplicemente, alcuni grandi talenti creativi americani hanno cominciato a non sentirsi più a proprio agio nell’universo Marvel (o forse nella redazione Marvel, guidata con piglio forse troppo dittatoriale da Jim Shooter), e le porte della DC si spalancano, ma non solo offrendo la possibilità di lavorare sui character tradizionali, bensì lasciando spazio alla sperimentazione e all’innovazione. E’ in questo modo che Frank Miller, che si è fatto un nome reinventando e rilanciando Devil alla Marvel, approda alla DC, che gli consente di realizzare un progetto ambizioso e decisamente “difficile” come Ronin (che “Corto Maltese” ha presentato in Italia a puntate… semestrali). E Miller la ripaga inventando quel “Batman: The Dark Knight Returns” che, praticamente da solo, risveglia la “bella addormentata” DC risvegliando un personaggio, Batman, che a sua volta aveva dormito il sonno della mediocrità per più di dieci anni.
Anche Dark Knight è stato presentato in Italia da “Corto Maltese” (per altro nella solita maniera piuttosto censurabile), ed è quindi inutile soffermarsi sulla sua storia, certamente nota ai più che leggono queste note, e da non rivelarsi nel dettaglio a chi ancora non l’ha letta (cosa che consiglio caldamente di fare, magari attendendo la doverosa pubblicazione in volume e sperando che non occorrano anni [il volume è uscito nel 1993, n. ci. r.]). Ironicamente, il Batman di Miller è un Batman vecchio e stanco, che da anni ha riposto maschera e cappa. Così come vecchio e stanco lo vede probabilmente Miller, autore poco più che trentenne e scarsamente incline a rispettare miti e canoni. L’operazione che Miller inizia a compiere con questo suo primo lavoro sul personaggio è, fondamentalmente, molto semplice: l’autore scruta nel profondo del personaggio e, acutamente, ne rivede le origini; rivede l’uomo solitario, il personaggio della notte, la nemesi dei criminali. E rivede l’uomo senza superpoteri, quindi vulnerabile. E, soprattutto, l’uomo ossessionato. Con un colpo di spugna Miller cancella anni di frivolezza, di ironia, di codice di autodisciplina, e scaraventa Batman in una Gotham City violenta, molto più violenta e fatiscente di quanto non sia mai stata. Ripropone, sia pure nel suo personalissimo stile al limite della sgradevolezza, il Batman che generazioni di lettori non avevano mai visto. Un Batman pronto a colpire e a uccidere, a massacrare nel nome dell’unica legge che conosce e riconosce: la propria. E un Batman i cui avversari non sono più i “quasi simpatici” arcicriminali destinati a essere sconfitti e imprigionati solo per poi ritornare, immutati e immutabili, a distanza di qualche numero. No, i nuovi avversari sono, nel mondo di Miller, – psicopatici assatanati, corrotti e corruttori, sadici, feccia. In altre parole, personaggi reali, o almeno realistici, sia pure magnificati (nel senso etimologico della parola) nella finzione artistica. Il risultato di questa operazione? Un trionfo. Un trionfo di vendite, con un titolo DC che dopo anni di mediocrità torna in vetta alla hit parade dei fumetti statunitensi; ma soprattutto un trionfo di critica e di costume, con i mass media che dedicano articoli e copertine, spazi in radio e in TV al nuovo “fenomeno” Batman. Con le inevitabili diatribe fra i pro e i contro, questi ultimi impressionati dalla violenza e dal pessimismo che trasudano dalle pagine di “Dark Knight”. Ma di questo parleremo la prossima volta. Non mancate!

Corto Maltese n. 69 del giugno 1989 (Rizzoli Editore)